Per la recensione della domenica vi propongo il grande classico della letteratura post-Cyberpunk “Snow Crash” scritto da Neal Town Stephenson nel lontano 1992, che ho letto in gioventù e mi è rimasto in un angolino remoto del cervello per tanti decenni prima di balzare fuori quando il Metaverso ha fatto capolino nelle nostre vite.
Partiamo dall’autore. Come spiega Wikipedia, Neal Town Stephenson, nato in una famiglia di scienziati e ingegneri a Fort Meade, sede della National Security Agency è un autore di fantascienza noto soprattutto per le sue opere di genere postcyberpunk. La sua visione del futuro lo ha portato a collaborare con aziende tecnologiche come Blue Origin di Bezos e Magic Leap, oltre che con governi e riviste scientifiche come Wired.
E adesso il libro. Che è qualcosa di pazzesco, pensando che è stato scritto trent’anni fa. La trama è veramente assurda e non la spoilero. Sappiate solo che il romanzo è ambientato in America alla fine del ventesimo secolo. L’America è una società dominata da un capitalismo selvaggio e preda delle grosse corporation che hanno sostituito i governi collassati, tra scorie atomiche e periferie postindustriali. Chi può, abbandona la Realtà e sceglie di vivere nel mondo virtuale generato dai computer, dove libertà e piaceri sono limitati solo dall’immaginazione.
Il nostro eroe è l’hacker freelance Hiro, fattorino per CosaNostra Pizza nella Realtà e mago del katana nel Metaverso. Il fattorino in questo mondo si dice “deliverator” e “… appartiene a un gruppo d’élite, a una sottocategoria onorata. L’uniforme è nera come carbone attivo e assorbe persino la luce dall’aria. Una pallottola rimbalzerebbe sulla sua corazza di aracnofibra come uno scricciolo contro la porta di un patio, ma le zaffate di sudore la trapassano come brezza in una foresta appena napalmizzata.”
“In corrispondenza delle estremità ossute del corpo, la sua tuta è munita di rinforgel sinterizzato: addosso fa l’effetto di una gelatina granulosa, ma protegge come una pila di guide del telefono. Nell’affidargli il lavoro, gli hanno dato una pistola.”
“Il deliverator non tratta mai in contanti, ma può sempre darsi che qualcuno lo insegua, magari per rubargli l’auto o la merce. La pistola è minuscola, aerodinamica, ultraleggera: un’arma che anche uno stilista di moda porterebbe volentieri; spara microfreccette che volano cinque volte più veloci di un aereo spia SR-71 e, quando hai finito di usarla, la infili nell’accendisigari per la ricarica.“
“L’auto del deliverator ha abbastanza energia potenziale accumulata nelle batterie da sparare mezzo chilo di pancetta tra gli asteroidi. A differenza dei bimbo box1 e dei trabiccoli suburbani, l’auto del deliverator scarica la sua potenza attraverso sfinteri ben lucidati che si aprono lampeggiando. Quando il deliverator schiaccia l’acceleratore, succede un gran merdaio. Vogliamo parlare di superfici di contatto? Le auto normali hanno pneumatici con superfici di contatto minuscole: comunicano con l’asfalto in quattro punti larghi quanto la vostra lingua. L’auto del deliverator, invece, monta grossi pneumatici con superfici di contatto larghe come le cosce di una cicciona. Il deliverator aderisce alla strada: parte come un uragano e inchioda su una peseta.”
Bene, se vi è piaciuto questo brano iniziale, che vi ho messo per farvi capire lo stile di scrittura di Stephenson, vi assicuro che non vi staccherete dal libro fino alla fine. Però vi avverto che è un libro che o piace o non piace. Punto. E sono decenni che la gente discute del contenuto, dello stile di scrittura e di come l’autore l’ha costruito, capitolo dopo capitolo.
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