Il rally di fine anno è una certezza – quantomeno nella mente e nei calendari degli investitori – un po’ come la riproposizione del film “Una poltrona per due” la sera della vigilia di Natale.
In realtà si sommano un po’ di statistiche e concetti differenti. A novembre inizia infatti il semestre bullish dei mercati finanziari, dicembre è solitamente un mese rialzista (gli istituzionali devono infiocchettare le performance) e infine c’è la storia del “Santa Claus rally”. Secondo la bibbia della statistica borsistica, Hirsch, tra il 1950 e il 1972 l’S&P500 ha messo a segno mediamente un +1,3% nella settimana tra Natale e l’ultimo dell’anno. Più recentemente, dal 1994 secondo Motley Fool (qui), il mercato è salito 23 volte e per 18 volte anche l’anno successivo. Mentre, nelle sei volte in cui quella settimana ha chiuso in rosso, il mercato è sceso per quattro volte l’anno dopo.
Ma cosa sta succedendo quest’anno? E Babbo Natale (o meglio: santa Claus) ci porterà in regalo una performance positiva quest’anno?
L’analisi che segue è a cura di Michele De Michelis, Responsabile investimenti di Frame Asset Management, società indipendente specializzata nelle gestioni patrimoniali a ritorno assoluto e nella consulenza finanziaria.
Se avessi passato l’ultimo mese in un’isola del Pacifico, isolato da tutto e tutti e fossi rientrato sabato mattina 4 novembre, aprendo la schermata di Bloomberg per verificare i tassi d’interesse dei decennali governativi mondiali (che monitoro costantemente ), pur senza senza sapere cosa fosse successo, avrei pensato che negli ultimi 30 giorni in cui ero rimasto scollegato qualche segnale di indebolimento della economia americana e in generale mondiale fosse effettivamente emerso, visto che li avevo lasciati mediamente a dei livelli più elevati di circa 20 punti base.
Pur tuttavia, andando ad analizzare nel dettaglio il grafico del decennale americano, sarei sicuramente rimasto molto sorpreso nel constatare che il ribasso di ben 50 punti base si fosse verificato in soli 3 giorni. Come se ci fosse stata una presa di coscienza collettiva che tassi così elevati (oltretutto anche reali e non solo nominali) non potessero essere sopportati da un’economia indebitata come quella a stelle e strisce.
Sicuramente ha inciso moltissimo la notizia del 23 ottobre, quando il noto gestore Bill Ackman ha dichiarato pubblicamente di aver coperto la sua posizione corta sui governativi ritenendo che, vista la situazione geopolitica internazionale, fossero aumentati i rischi di “flight to quality”, soprattutto in considerazione di rendimenti così appetibili.
Direi quindi che, mentre gli operatori del mercato obbligazionario sono stati coerenti con i nuovi segnali giunti dal rinnovato contesto macroeconomico e geopolitico, lo stesso non si possa dire del mercato azionario.
Se è pur vero che nel corso del mese di ottobre la correzione dello Standard & Poor’s è arrivata anche oltre il 10 %, con un oggettivo ipervenduto di breve (e quindi un pullback fosse prevedibile), il recupero di 250 punti base dell’indice (quasi 6 punti in percentuale) in una settimana mi è sembrato un movimento un po’ eccessivo, soprattutto per la situazione descritta da Bill Ackman.
Ovviamente, a supporto di questo movimento rialzista dell’equity, ci sono anche ragioni fondamentali, la più importante delle quali è quella che, essendo la Fed riuscita nel suo intento di raffreddare l’inflazione senza soffocare il ciclo economico, si ritorni piano piano ad un contesto di crescita decente con inflazione moderata e tassi che cominceranno a scendere anche nel breve.
Ma allora, per quale motivo nel corso del 2023 l’indice S&P 500 è stato trainato solo da poche società a multipli altissimi (le FAANG e poche altre), nonostante i tassi in continua salita?
Che l’aumento dei rendimenti obbligazionari quest’anno sia stato trascurato dagli investitori e dai mercati è un dato di fatto. Risparmi in eccesso, un boom di produttività guidato dall’intelligenza artificiale, stimoli fiscali, il fatto che ci siano le elezioni presidenziali americane l’anno prossimo, sono stati tutti proposti come motivi che avrebbero dovuto far passare in secondo piano i liivelli raggiunti dai tassi di interesse.
Una teoria che mi trova alquanto scettico poiché credo infatti che contino ancora, eccome. Non solo stanno tornando ad influenzare l’economia, ma il loro impatto sarà probabilmente avvertito sui mercati finanziari in maniera repentina.
Credo quindi che la volatilità che abbiamo visto nell’ultimo periodo non possa che continuare e che, se i tassi dovessero proseguire nella loro diiscesa, sarà perchè l’economia sta incontrando qualche turbolenza nell’ “atterraggio” e probabilmente a quel punto gli investitori si renderanno conto che le valutazioni del mercato azionario non sono poi così a buon mercato.
Non prima però del rally di fine anno, che ci capita spesso di registrare in questo periodo.