Oggi vi proponiamo una profonda riflessione di Maurizio Novelli, gestore Lemanik, ben conosciuto dai nostri lettori e dalle nostre lettrici, che ci spiega come il sistema statunitense necessiti di costanti politiche fiscali reflazionistiche ma allo stesso tempo non può permettersi ulteriori aumenti dei tassi d’interesse e che i tempi per l’introduzione di un controllo della curva dei tassi sul dollaro si fanno sempre più concreti mentre il mercato azionario Usa è sempre più un indice e sempre meno un mercato.

Maurizio Novelli – Fonte: Lemanik

Introduzione

L’indice SPX 500 si appresta a chiudere il trimestre in corso con una performance positiva del 4%, mentre l’indice equal weighted evidenzia invece una performance negativa del 3% circa, confermando la mia tesi che il mercato azionario Usa non è attualmente un mercato ma solo un indice. Questa esasperata concentrazione di performance (pochi titoli guidano il trend dell’indice) ha toccato tali livelli solo tre volte nella storia: nel 1928/1929, nel 2000/2001 e oggi. Le successive esperienze precedenti non sono state gradevoli, ma si spera sempre nel detto: “this time is different”.

Questo meccanismo di concentrazione serve, per ora, a sostenere un mercato azionario in crisi, dato che l’effetto trascinamento esercitato dall’indice serve a sostenere flussi di capitale verso società che attirano tali flussi solo grazie alla capitalizzazione sull’indice e non per i risultati di bilancio. Le società quotate sono quindi costrette a riversare una percentuale significativa dei profitti (circa il 70% a fine 2023) nei Buy Back, anche se i valori di acquisto delle proprie azioni non sono convenienti per gli azionisti, per tentare di mantenere una capitalizzazione che consenta di attirare i flussi passivi generati dagli Etf. Facciamo il caso di Intel: la società ha ricevuto sussidi governativi per 48 Mld di dollari per sviluppare chips avanzati dopo aver bruciato 95 Mld in Buy Back. Boeing ha bruciato 60 Mld di dollari in Buy Back per poi ricorrere agli aiuti di stato per superare la crisi derivante dalla progettazione del 737. Apple negli ultimi 5 anni ha generato 560 Mld di cash flow e ne ha spesi 470 in Buy Back (oltre 80% del cash flow). Questi sono solo alcuni degli innumerevoli esempi. Mentre si cerca di far credere che il Buy Back è sempre e comunque la migliore operazione possibile per gli azionisti, in realtà nasconde una finalità prevalente, cercare di sostenere il titolo per mantenere una capitalizzazione tale da attirare i flussi degli Etf. Fino a quando va tutto bene un meccanismo alimenta l’altro. Più soldi entrano negli Etf e più flussi vanno sui titoli a maggiore capitalizzazione, più fai Buy Back e più sostieni la capitalizzazione per attirate tali flussi. Nel 1928 tale meccanismo non era sostenuto dagli Etf, che ancora non esistevano, ma dai Trust, dei veicoli finanziari creati dalle società quotate, dove una parte degli utili venivano allocati per fare Buy Back. Nulla di nuovo sotto il sole, è solo cambiato lo strumento utilizzato per sostenere il mercato. L’esperienza storica ci dice però che il meccanismo non è così solido come si tende a far credere. Per questo motivo molti investitori istituzionali americani considerano il loro mercato “uninvestable”, e per questo motivo il mercato azionario statunitense è ormai solo uno strumento di trading.

Economia sempre più debole

Nel frattempo i fondamentali dell’economia americana continuano a deteriorarsi. Anche maggio ha evidenziato un calo dei consumi e una revisione al ribasso del dato sui consumi di aprile. È il quarto mese consecutivo di proseguimento del trend al ribasso dei consumi ed è strettamente correlato, come già evidenziato nella precedente newsletter, alla fine del dissaving dell’eccesso di risparmio, al relativo picco sul debito al consumo e allo stallo sulla spesa pubblica. Come ho avuto modo di evidenziare, in circa 18 mesi i consumatori Usa hanno dilapidato 2,5 Trilioni di eccesso di risparmio generato dai generosi interventi fiscali, hanno fatto ulteriori 500 Mld di debito al consumo e hanno beneficiato della sospensione dei pagamenti del debito sugli Student Loans. L’effetto combinato di tali eventi straordinari ha generato 3 Trilioni di dollari (15% del Pil) di consumi “anomali”, ha innescato il rimbalzo del ciclo e il recupero dei profitti per le società quotate, ma poi ha innescato l’inflazione. L’impennata dei prezzi è stata una ulteriore spinta “anomala” sui profitti delle società quotate, che grazie al Pricing Power, hanno scaricato sul consumatore finale l’intera ondata inflazionistica. Nonostante questo il 60% delle società che compongono l’indice Russell 3000 non fanno utili. Si tenga conto che l’indice indicato comprende tutte le large cap, le mid cap e le small cap quotate.

Questo per ribadire che Etf e Buy Back nascondono un mercato azionario in crisi e una economia molto più debole di quella che viene raccontata dalle banche d’investimento (guarda caso americane). Ulteriori notizie confermano quello che da tempo scrivo sulla crisi dello Shadow Banking System e sul settore bancario statunitense. Il sito di ricerca Cred-iq, uno dei principali analisti di Commercial Real Estate degli Stati Uniti, ha recentemente pubblicato una ricerca che evidenzia che circa il 46% dei crediti sul commercial real estate (CRE) cartolarizzati nei Credit loan obligation (CLO) sono o in delinquency o in “servicer’s watchlist” al 30 Aprile 2024. Cioè sono stati passati al Servicer, che è la società di amministrazione del credito che gestisce i crediti problematici e le insolvenze. Si tenga presente che i prestiti al CRE ammontano a 4,3 Trilioni di dollari (circa il 20% del Pil Usa) e i CLO, oltre alle banche, sono solo una parte dei veicoli che contengono crediti cartolarizzati del CRE e che si aggiungono ai CMBS. Solo nel settore del Commercial Real Estate il livello di Subprime è esattamente uguale ai Subprime in circolazione nel 2008: 2 Trilioni di dollari. Non consideriamo i Subprime su Carte di Credito, Prestiti Auto e Student Loans, così come non consideriamo Private Credit (CCC rating medio), Leverage Loans e High Yield. Come ho già avuto modo di evidenziare in precedenti note, l’importo totale del credito speculativo in circolazione negli Stati Uniti è pari a 12 Trilioni di dollari pari al 50% del Pil, il più alto livello mai raggiunto nella storia. A tal proposito, e a conferma di tutto quanto ho già scritto su tali argomenti, la Fed ha recentemente (ma tardivamente) pubblicato un paper molto interessante che conferma tutto: The growing risk spillover and spillbacks in the banks – NBFI, Archarya, Cetorelli, Tuckman, June 2024. Il documento tratta la stretta correlazione di rischio di credito tra Banche e Shadow Banking System “alla faccia” della “feroce” regolamentazione post crisi 2008. Sembra che il sistema finanziario abbia una alta predisposizione a credere a tutto quello che si vuol far credere da parte di coloro che distribuiscono il rischio nel sistema e fanno credere che il rischio non c’è. A tale proposito fa notizia l’articolo uscito su FT: Rating Agencies give high marks to bonds financing defaulted properties – June 21, 2024. La data potrebbe riportare una notizia vecchia di 16 anni ma in realtà è attuale: le agenzie di rating Usa hanno attribuito rating AAA a bond che sono già in default. Quando dico che il sistema è saltato e che tutto è tenuto nascosto nei bilanci di banche che non contabilizzano le perdite e nelle cartolarizzazioni di crediti insolventi che non contabilizzano l’insolvenza non credo di sbagliarmi. A questo punto aspettiamo di vedere per quanto tempo possiamo reggere.

Tra recessione e inflazione gli Stati Uniti sceglieranno l’inflazione

Le soluzioni che vedo sono solo due: 1) Il soft landing è in realtà già una Balance Sheet Recession, quindi più si prolunga peggio è. 2) Per evitarla gli Stati Uniti devono scegliere inflazione e spesa pubblica intensiva. Le elezioni Usa non modificano lo scenario già scritto, cambia solo colui che dovrà gestirlo. A mio parere l’inflazione sarà la scelta necessaria, dato che gli Stati Uniti prima di soccombere perseguiranno politiche reflazionistiche. L’alternativa è una crisi da debito con deflazione, ma non credo sia la scelta probabile, anche se l’incidente, visto come siamo messi, può accadere. Lo scenario si delinea dunque alquanto problematico e la tenuta del sistema dipende dalla fiducia cieca in quello che ti raccontano. Il rallentamento in corso dell’economia può sostenere un rally sui bond e creare aspettative di rientro dell’inflazione, inducendo Fed e Bce a ridurre marginalmente i tassi. Ma più il rallentamento si consolida più aumentano i rischi di sistema procurati dall’eccesso di debito speculativo a rischio di default. Per evitare questo rischio latente le politiche fiscali devono essere per forza reflazionistiche e quindi, a partire dal tardo autunno dell’anno in corso, i mercati potrebbero scontare politiche fiscali americane decisamente espansive per evitare una crisi. Questo potrebbe innescare ulteriori rischi di inflazione, creare ulteriore pressione sui bond e innescare un ulteriore rally sull’Oro. Le borse rischiano di aver scontato una traiettoria di profitti attesi basati sui fattori straordinari elencati e non ripetibili. Il punto a cui siamo arrivati è che il sistema necessita di costanti politiche fiscali reflazionistiche ma non può permettersi ulteriori aumenti dei tassi d’interesse. I tempi per l’introduzione di un controllo della curva dei tassi sul dollaro si fanno sempre più vicini.

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