Fino al 2020, delle catene di approvvigionamento, si erano occupati solo gli esperti in riduzioni dei costi: non importa quanto erano lunghe, l’importante era che si limassero i costi al minimo possibile. Con il Covid si è toccato con mano, invece, l’importanza di averle sotto controllo (esempio banale: le mascherine). E con la guerra in Ucraina anche le materie prime e semilavorate sono entrate nei radar di industrie e governi.
Gli Stati Uniti si sono posizionati in prima fila per questa fase di reshoring e anche di diversificazione delle catene di approvvigionamento. Ce ne parla in questo intervento Norman Villamin, Group Chief Strategist di UBP.
La capacità di recupero dell’economia statunitense nel 2023 ha sorpreso molti ed è stata in gran parte attribuita alla solidità dei consumi. Sebbene sia vero che i redditi delle famiglie americane abbiano contenuto la forte contrazione del mercato immobiliare e l’entrata in recessione del settore manifatturiero, è passato invece relativamente inosservato che a fine giugno il deficit di bilancio del governo statunitense abbia raggiunto l’8,5% del PIL, crescendo ancora rispetto al già alto 5,5% di dicembre 2022 e dal più “modesto” (per gli standard USA pre-pandemia) 3,8% di metà 2022.
A guidare questo fenomeno non è stato il tipico fervore americano per il taglio delle tasse, ma piuttosto il risultato delle prime fasi di una serie di leggi approvate tra il 2021 e il 2022: l’Infrastructure Investment and Jobs Act, il Chips and Science Act e, infine, l’Inflation Reduction Act del 2022.
Insieme, i tre provvedimenti hanno posto le basi non solo per il sostegno fiscale all’economia ma, cosa più importante, per la prima politica industriale di ampio respiro dai tempi della Guerra Fredda, incentrata sulla transizione energetica verde e volta a sostituire le basi industriali statunitensi del 20mo secolo. Infatti, se rendere più ecologica l’economia mondiale è una priorità globale almeno dall’accordo di Parigi del 2015, è solo nel 2022, attraverso l’Inflation Reduction Act (IRA), che gli Stati Uniti hanno davvero intrapreso uno sforzo ambizioso per rinnovare la loro economia. Ancora più importante è per gli investitori il fatto che l’iniziativa sembra destinata a dare il via non solo a un ciclo di investimenti negli Stati Uniti, ma anche a livello globale – per perseguire gli obiettivi di Parigi, nonché nel tentativo di assicurarsi una parte delle catene del valore che costituiranno la base dell’economia mondiale nei decenni a venire.
Il solo Inflation Reduction Act ha impegnato quasi 400 miliardi di dollari in finanziamenti verdi e crediti d’imposta. Tuttavia, la natura aperta dei sussidi e i progetti privati già mobilitati nel primo anno successivo all’entrata in vigore della legge suggeriscono che nel prossimo decennio potrebbero essere stanziati almeno 1.700 miliardi di dollari, pari a circa il 6% dell’attuale PIL statunitense. Oltre a catalizzare il mercato statunitense per risvegliarlo dal torpore riguardo al cambiamento climatico, la legislazione è anche servita da “scintilla” competitiva per altre nazioni per eguagliare il sostegno finanziario americano che sposta drasticamente il costo del capitale per attrarre e stimolare investimenti simili. Di conseguenza, quello che sarebbe stato un catalizzatore per un ciclo di investimenti incentrato sugli Stati Uniti si è trasformato in un ciclo di natura globale.
Infatti, il Canada ha lanciato un proprio programma che dovrebbe raggiungere quasi il 4% del PIL nell’arco di dieci anni, mentre dall’altra parte del Pacifico il Giappone ha annunciato un pacchetto fino al 3% del PIL a sostegno delle proprie ambizioni industriali verdi. Con lo scopo di agire rapidamente in attesa che la burocrazia risponda in modo più formale, l’Unione Europea ha riproposto 250 miliardi di euro di programmi esistenti per cercare di eguagliare la spinta statunitense verso la transizione verde.
Nonostante i suoi espliciti obiettivi climatici, la nuova politica industriale americana cerca anche di erodere la quota di mercato dell’attuale catena di valore dell’energia pulita domiciliata in Cina e in Asia, che raggiunge quasi il 90%. È indubbio che questa sfida non farà che aumentare il già consistente impegno della Cina per la transizione energetica, che solo lo scorso anno ha raggiunto investimenti pari a 500 miliardi di dollari.
È probabile che la spesa resti costante e potenzialmente aumenti per mantenere il vantaggio cinese in termini di innovazione e di costi, soprattutto in considerazione dei sussidi che vengono erogati e dell’attenzione ai prodotti di origine nazionale, che è una caratteristica fondamentale della legislazione americana. Con una quota di mercato così dominante nei punti nevralgici della catena del valore, la Cina rimarrà probabilmente un fornitore dominante – e in molti casi critico – nella catena del valore globale, anche di fronte ai tentativi dell’Occidente di diversificare le catene di approvvigionamento.
Infatti, mentre l’Occidente può tentare di disintermediare la Cina, la disputa del Giappone con la Cina nel 2010, che ha portato al divieto cinese di esportare metalli delle terre rare attraverso il Mar del Giappone, evidenzia quali sfide siano da affrontare. Sebbene l’Occidente sia riuscito a dare nuovo impulso e a trovare una produzione mineraria alternativa, la Cina mantiene una quota di mercato globale dominante nella lavorazione intermedia dei metalli delle terre rare. La Cina sta simultaneamente utilizzando queste posizioni dominanti per garantirsi una maggiore presenza offshore, associandosi con i produttori di materie prime per aiutarli a risalire la catena del valore costruendo maggiori capacità di lavorazione utilizzando le competenze cinesi e, al contempo assicurandosi le materie prime.
In Indonesia, ad esempio, un divieto del 2014 sui minerali non lavorati ha spinto la Cina a superare il Giappone come principale motore degli investimenti esteri diretti nel settore minerario e ha indirizzato il mix delle esportazioni indonesiane dai minerali grezzi ai metalli raffinati a più alto valore aggiunto. Pertanto, con la Cina che investe per mantenere la sua leadership globale e la nuova politica industriale degli Stati Uniti che sprona le nazioni occidentali a seguirne l’esempio, ora è arrivato un catalizzatore che trasforma le promesse della transizione energetica globale, concretizzandole in un’ampia serie di investimenti reali in tutto il mondo.
Per gli investitori, concentrarsi sulle società che beneficeranno direttamente di tale spesa soprattutto nei punti nevralgici della catena del valore della transizione energetica globale, dovrebbe consentire di sfruttare il “pricing power” e la stabilità degli utili che creeranno opportunità nel momento in cui questo ciclo pluriennale di investimenti si svilupperà seriamente in futuro.