Le ricadute economiche della pandemia sono state ampie e spesso inattese. L’inflazione è arrivata a livelli che nessuno si sarebbe aspettato e tassi d’interesse così elevati non si vedevano da 15 anni, ma l’occupazione e la crescita economica si sono comunque mantenute a livelli positivi.
Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer di UBS GWM in Italia, inizia così a delineare il contesto in cui ci troviamo ora a vivere e quelle che saranno i prossimi sforzi che ci troveremo a compiere. Qui sotto le sue riflessioni.
L’inusuale combinazione di questi fattori è stata dovuta a un cambiamento macroeconomico: in seguito alla pandemia siamo passati da un regime di bassa domanda a uno di alta domanda, per di più con limitazioni alla disponibilità di materie prime. Questo cambiamento in buona parte è stato causato dalla saggia decisione dei governi di sostenere l’economia durante la pandemia, varando imponenti piani fiscali e infrastrutturali (come il PNRR, facendo riferimento all’Italia) e arrivando finanche a garantire il credito alle aziende. In assenza di questo supporto, probabilmente la crisi economica derivante dalla pandemia sarebbe durata anni e ci avrebbe portato a un credit crunch che avrebbe ridotto strutturalmente la capacità produttiva. D’altra parte, politiche fiscali così estreme si sono rivelate inflattive e hanno contribuito a far salire il debito pubblico in tutte le economie avanzate.
L’aumento dell’indebitamento è un fenomeno che in realtà continua dalla crisi finanziaria globale del 2008, ma finisce sotto i riflettori solo ora per via dei tassi d’interesse più elevati, che ne moltiplicano il costo. Proprio le politiche di gestione del debito e l’interazione che questi fattori avranno con le altre grandi tendenze in corso, come la demografia, la digitalizzazione, la deglobalizzazione e la transizione energetica, definirà i prossimi anni.
La deglobalizzazione è, in parte, già in corso. Il peso degli scambi commerciali rispetto al prodotto interno lordo (PIL) globale sta scendendo ormai da oltre un decennio, in parte per via dei cambiamenti tecnologici, come l’automazione, e della ricerca di catene di approvvigionamento più veloci e sicure. Ma le tensioni tra Stati Uniti e Cina rischiano di dividere il mondo in blocchi finanziari, commerciali e tecnologici. Se la politica deciderà di proseguire per questa strada, probabilmente ne soffrirà la crescita globale e le famiglie faranno i conti con un minor potere d’acquisto.
In ogni caso, che sia per far fronte a un cambiamento nelle catene di approvvigionamento o per delimitare aree economiche, la deglobalizzazione richiederà molti capitali, investimenti e abbondanza di finanziamenti. La demografia è forse la minaccia più grande, anzi costituisce tipi diversi di minacce in diversi posti del mondo. Sulla base del PIL, circa la metà dell’economia globale dovrà far fronte a una riduzione della popolazione.
Questo fenomeno riguarda le aree più avanzate e in particolare molti Paesi europei, tra i quali l’Italia, il Giappone e in prospettiva anche la Cina. La demografia rappresenta un motore per la crescita: l’aumento della popolazione spinge i consumi e un incremento della forza lavoro spinge la crescita potenziale.
I lavoratori in pensione rappresentano il 15% della popolazione attiva a livello mondiale, ma solo un decennio fa erano meno del 12%. Se consideriamo i Paesi più ricchi, il balzo è stato dal 23% al 29%. Il Giappone da molti anni sta investendo per superare la sfida tecnologica, finora con risultati altalenanti. La tecnologia potrebbe consentire di evitare l’impatto negativo derivante dall’invecchiamento della popolazione e questo ci porta alla digitalizzazione.
L’intelligenza artificiale potrebbe portare a un aumento della produttività, secondo alcuni accademici compreso tra il 2 e il 7%, e quindi bilanciare l’impatto negativo dell’invecchiamento della popolazione e della deglobalizzazione. Ma la tecnologia, e in particolare l’intelligenza artificiale, richiede forti investimenti e quindi una buona disponibilità di capitali e finanziamenti.
Nel frattempo ci troviamo già ad affrontare un’emergenza climatica, con conseguenze che sono sempre più tangibili e vicine a noi. La transizione energetica è forse il cambiamento più forte che dovremo affrontare in un mondo dove l’aumento della popolazione e degli standard di vita spinge verso incrementi vertiginosi delle emissioni di anidride carbonica.
Anche la deglobalizzazione porta alla transizione energetica per ridurre la dipendenza dall’estero. Per tanti anni la domanda di petrolio continuerà ad aumentare, ma proseguiranno gli investimenti (pubblici e privati) nell’energia rinnovabile, nelle batterie e nello sviluppo di nuove tecnologie. Il requisito per affrontare tutte queste sfide (deglobalizzazione, demografia, digitalizzazione e transizione energetica) è la realizzazione di forti investimenti e, quindi, la disponibilità di finanziamenti a costi ragionevoli.
È probabile che i debiti pubblici dovranno salire per far fronte a queste trasformazioni. Molto dipenderà dalla crescita economica e dall’inflazione nei prossimi anni, oltre che dai tassi d’interesse; ma, con tutta probabilità, per non mettere in difficoltà i governi nella seconda parte di questo decennio e non alienare l’opinione pubblica occorrerà che i costi di finanziamento siano contenuti. Il modo migliore per gestire il debito è di poter contare su una robusta crescita, spinta anche dagli investimenti; ma, se così non fosse, occorrerebbe pensare a un aumento della tassazione, default sovrani e repressione finanziaria, vale a dire mantenere i rendimenti dei debiti pubblici al di sotto dell’inflazione.
Complessità e volatilità certamente non mancheranno, ma nemmeno le opportunità di generare crescita dei portafogli. L’azionario dovrebbe produrre i ritorni più elevati tra tutte le asset class. Le valutazioni sono ora ragionevoli e le società più innovative, favorite dalle innovazioni dirompenti in settori come intelligenza artificiale, transizione energetica e salute, offrono un potenziale significativo a lungo termine sia nei mercati pubblici che in quelli privati. Possiamo contare sui migliori rendimenti obbligazionari da oltre un decennio e ci aspettiamo che scendano, anche se non a un livello simile a quello registrato prima della pandemia.
Posizionarsi su scadenze medio-lunghe consente di assicurarsi rendimenti che, con tutta probabilità, non saranno più disponibili tra qualche tempo.
I prezzi delle materie prime probabilmente resteranno elevati in considerazione dei cambiamenti climatici, delle complesse catene di approvvigionamento e dell’aumento della spesa per la difesa. In generale, è però consigliabile investire nelle materie prime tramite il mercato azionario, per esempio utilizzando il settore dell’energia.
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